Editoriale n. 5 (2012)

Quando noi occidentali parliamo di "traduzione", ricorriamo a un'immagine mentale ben definita: "far passare" ovvero "trasporre" un determinato enunciato, o insieme di enunciati, da una lingua all'altra. I termini che usiamo per definire il tradurre, infatti, si fondano tutti su una metafora di questo tipo: così l'italiano "tradurre", il francese "traduire", il portoghese "traducir" (dal latino trans-ducere "condurre al di là"), l'inglese "trans-late" (dal latino trans-latum "portato di là") o il tedesco "übersetzen" (letteralmente "tras-porre"). Al contrario in Igbo, lingua parlata in Nigeria, le parole usate per indicare l'atto del tradurre sono tapia a kowa. Entrambe sono composte da un elemento che significa "narrare" e da un altro che significa "rompere, decomporre". Nella percezione indigena la traduzione consiste dunque in una pratica che "decompone" una determinata serie di enunciati e poi li "ri-racconta" – come accade nella locale versione della storia di Adamo ed Eva, in cui alla fine Adamo diventa un grande agricoltore. Se dunque noi ci accingessimo a studiare queste pratiche culturali nigeriane applicando la nostra categoria (etica) del "tradurre" o del "translate", rischieremmo di iniziare subito con un fraintendimento. E del resto, quando al latino vertere – "trasformare", "mutare radicalmente" la natura di qualcosa, fino ad operarne la metamorfosi – diamo il banale senso di "tradurre", noi non commettiamo forse un'analoga forzatura? Se Plauto dice Plautus vortit barbare di una commedia greca, non sta dicendo che l'ha "tradotta": tant'è vero che, come si è sempre notato, le "traduzioni" dal greco dei comici romani non corrispondono gran che agli originali, quando possiamo controllarle. Il poeta sta descrivendo un'operazione diversa, che in qualità di interpreti moderni della cultura romana siamo chiamati a descrivere nel modo più completo e approfondito possibile, non ad appiattire sulle nostre categorie preformate.
   Questi due soli esempi potrebbero certo bastare per comprendere quanto complesso e delicato sia il problema del tradurre. Che non consiste solo nel trovare, in una lingua diversa, parole equivalenti a quelle contenute in un testo originale, ma nel trasporre modelli e atteggiamenti culturali, o perlomeno cercare di farlo.
   Siamo perciò felici di ospitare, in questo numero dei QRO, gli atti di un convegno incentrato sul proprio tema della traduzione dei testi classici di argomento medico e filosofico, organizzato dalla Prof.ssa Daniela Fausti nell'ambito delle attività della Sezione «Antropologia del mondo antico» per l'attuazione del Programma Multidisciplinare «La traduzione», promosso dalla Scuola Superiore Santa Chiara dell'Università di Siena. Siamo infatti certi che la presenza di questi saggi, incentrati su un problema a un tempo così rilevante e così specifico, ci renderanno sempre più persuasi del fatto che qualsiasi forma di studio o riflessione su una cultura diversa dalla nostra, costituisce prima di tutto un atto di traduzione culturale. Secondo il progetto che anima da sempre questa rivista, e che ispira anche i rimanenti saggi contenuti in questo volume.
                                                                                     Maurizio Bettini